Solidarietà: attenzione alle illusioni ottiche

 

Di Dante Balbo

 

 


Natale è il tempo dei buoni sentimenti, della solidarietà espressa in mille rivoli fatti di mercatini, di raccolte, di collette, di gesti concreti di solidarietà, meglio di azioni visibili di aiuto alla povertà.

Purtroppo il Natale è un tempo rischioso, in cui o siamo sommersi dal miele dei films sulla bontà ritrovata, oppure siamo fustigati dai moralismi sulla nostra incoerenza, sul nostro egoismo e sulla povertà che in questo periodo dell’anno diventa più povera del solito.

E’ difficile allora scrivere della solidarietà senza cadere in uno di questi due equivoci terribili, che, alla fine non ci portano da nessuna parte, perché non ci interrogano realmente, non ci scuotono la vita, se non per qualche istante, o se va bene per qualche giorno.

 

 

A posto con la coscienza

Oltre tutto le occasioni per rimetterci a posto la coscienza non mancano: possiamo persino insegnare ai nostri figli a disfarsi dei loro giocattoli, naturalmente superflui, visto che ne riceveranno di nuovi, per imparare ad essere solidali con i poveri bambini che giocattoli non ne hanno mai visti.

Ricordo ancora lo stupore nel vedere che i giochi regalati all’Istituto indiano dove sono andato con la mia famiglia ad accogliere la nostra bambina adottiva erano ben allineati in una vetrina, intoccabili per i bambini.

Il principio è lo stesso delle nostre nonne, che per quarant’anni tenevano le lenzuola belle chiuse in una cassa, preziosa dote per il loro matrimonio, per poi passarle alle figlie da maritare, le quali non avrebbero naturalmente osato adoperarle.

Sicuramente chi ha donato quei giocattoli era in buona fede e aveva l’impressione di aver fatto un’opera di solidarietà autentica con i disgraziati orfani asiatici.

 

Non si può... ma...

Non si può sparare sulla solidarietà di dicembre, quando per un anno intero si è promossa la stessa solidarietà come valore.

Non si può denunciare l’azione puntuale di questa o quella persona o organizzazione quando per essa persone di buona volontà si sono date da fare, magari un anno intero a forza di mercatini del dolce o di manufatti artigianali, per raccogliere somme che concretamente andranno ad aiutare qualcuno di preciso, di cui si possono documentare i risultati con foto e racconti dal vivo.

Eppure è proprio questa visibilità, questa apparente concretezza ad essere pericolosa.

 

Professionalità e coerenza

Noi viviamo un tempo in cui non ci fidiamo più delle grandi organizzazioni, vogliamo vedere dove i nostri soldi vanno a finire, non solo perché riteniamo che vi sia corruzione e cattive amministrazione della solidarietà, ma anche perché vogliamo essere partecipi, presenti, in qualche modo senza intermediari fra noi e i poveri.

Risulta per esempio difficile capire perché il mio cappotto non è andato in Bosnia ma l’ho visto addosso ad una signora svizzera, mentre lo avevo dato alla Caritas o alla Croce Rossa per i senza tetto che pativano il freddo in quella terra martoriata.

Eppure è una questione proprio di buona gestione che ha fatto decidere queste organizzazioni di vendere qui il mio cappotto, perché è più costoso trasportarlo che comperarlo laggiù con il ricavato della vendita che, oltre tutto, ha permesso a qualcuno di risparmiare anche nel nostro paese. Non è detto che ciò che si vede è sempre buono.

Non siamo i soli a dirlo perché anche Claudio Naiaretti, segretario generale della FOSIT (vedi anche pagina 30), Federazione delle Organizzazioni non Governative della Svizzera Italiana, lo affermava nella puntata del 6 gennaio scorso di Caritas Insieme Tv.

In sintesi diceva che è più difficile far riconoscere dai possibili donatori tutto il grande lavoro di ricostruzione delle coscienze, di ricupero delle identità, di rieducazione alla autodeterminazione che è il centro di molti progetti di sviluppo, piuttosto che farsi finanziare una scuola, una casa, un ospedale, utili, forse, ma spesso cattedrali nel deserto di paesi che prima ancora che di strutture hanno bisogno di persone che li aiutino a credere di nuovo in se stessi.

Per la solidarietà verso i paesi in via di sviluppo  non è diverso che per altre questioni che ci toccano più da vicino.

E’ facile costruire una casa per donne maltrattate o per malati di AIDS, è visibile, porta voti al promotore, o fama di grande filantropo. Più difficile  è cambiare i nostri pregiudizi sulle donne o la nostra cultura della sessualità.

E così il consumismo che cerchiamo di combattere con la nostra solidarietà concreta e che si può in un certo modo toccare con mano, rischia di ritornarci addosso, non in questo gesto concreto, magari, ma nella cultura che progressivamente ci formiamo, che rende la nostra solidarietà autentica solo se luccica come una vetrina natalizia.